15 Aprile 2022

Perseveranza

Il tema del diverso peso che talenti e perseveranza hanno nel comporre il risultato finale delle nostre attività mi è caro. Credo che in esso risieda molto della nostra capacità di essere efficaci e ottenere risultati.

Oggi vorrei parlarvi di "Perseverare è umano" di Pietro Trabucchi. Trabucchi è psicologo e coach di atleti che praticano sport di resistenza, come le ultra maratone o le gare di distanza a tempo (e il tempo sono 24 ore!).

Un fattore culturale

Secondo l'autore, e se ne scrivo significa che trovo in questa teoria molte verità, la nostra cultura ha smarrito il senso dell'impegno e della volontà individuali. Chiaramente è un discorso generico e ognuno ha la propria storia, ma condivido che mediamente la vita di comfort a cui siamo abituati ha abbassato il livello che consideriamo "accettabile" di impegno e sofferenza.

Il concetto di perseveranza ha radici culturali e si fonda su "modelli di impegno", ovvero modelli di accettazione del disagio e della responsabilità che in età giovanile vengono assorbiti tramite l'esempio di figure di riferimento e veicolate dall'educazione.

Qui, aggiungo io, siamo anche abituati a una velocità di risposta tra bisogno e soddisfazione che un qualunque tempo di attesa ci pare infinito e mina la nostra perseveranza. Lo si percepisce fin dalle modalità di shopping, dove il tempo accettabile di attesa tra lo stimolo (guarda che belle scarpe), il bisogno (mi servirebbero proprio), l'azione (apro Amazon e le compro) e la soddisfazione (apro il pacco Prime) si abbassa sotto le 24h. Noi stessi adulti, assuefatti a questo mondo, ma ancor più i ragazzi che non hanno mai sperimentato l'attesa, siamo tutti sempre più abituati all'assenza di attesa e perseveranza.

I demotivatori

Esistono due tipi di demotivazione: quella legata al basso senso di autoefficacia, che mi fa apparire impossibili gli obiettivi desiderati perché ritengo di non essere in grado e quella legata a scarse capacità volizionali (potrei raggiungerlo se volessi, ma non sono disposto a faticare per ottenerlo). Se si vuole aumentare la propria resilienza, bisogna lavorare su entrambi i fronti. Qui entrano in gioco i piccoli passi di cui parlo spesso durante le sessioni. Quando abbiamo la sensazione che l'impresa sia oltre le nostre capacità, cerchiamo piccoli successi a breve termine: attiveranno il volano dell'autoefficacia pur non costandoci eccessivi disagi.

Come ho già avuto modo di esprimere, il mito del talento è un grande demotivatore. Se riteniamo di essere nati con (o senza) una fantomatica predisposizione genetica a una data attività, lasceremo nelle mani di questo dono le sorti della nostra riuscita. All'eventuale predisposizione deve necessariamente accostarsi impegno e applicazione. L'anno scorso nel mio blog ho dato spazio all'attività di Carol Dwerk che, nel suo libro "Mindset", parla di questo e definisce le due tendenze come mentalità statica e mentalità dinamica. Leggi qui l'articolo se te lo sei perso.

Un tema ormai universalmente riconosciuto è che non esista una motivazione estrinseca di lunga durata. Gli stessi incentivi economici, si sa, hanno vita molto breve o, addirittura, ottengono l'effetto opposto. Daniel Pink ha parlato nel suo "Effetto Tom Sawyer" di come la motivazione si possa addirittura ridurre quando un'attività passa dall'essere volontaria e gratuita all'essere retribuita. Non stiamo parlando di lavorare gratis, anzi sono convinta sostenitrice dell'adeguato compenso, ma le ricerche dimostrano che la resilienza si innesca quando l'attività è svolta liberamente e per proprio piacere, prescinde da fattori esterni e, oltre un certo limite, anche dal denaro.

L'automotivazione

La motivazione intrinseca o automotivazione è legata al sentirsi capaci di fare un qualcosa, al proprio senso di auto-efficacia. Facendo leva sul senso di competenza, sul piacere di farcela, possiamo ottenere dalle persone un impegno straordinario. Chi è dotato di motivazione intrinseca trasforma gli ostacoli in sfide.

La resilienza non è un qualcosa che ci può essere infuso, ma è una capacità cognitiva (ovvero legata al nostro modo di pensare: non è innata, ma può essere imparata) legata al modo in cui elaboriamo le informazioni e ci rapportiamo con la realtà. Il modo in cui leggiamo la realtà e, di conseguenza, interagiamo con essa è la base per l'accrescimento della nostra resilienza.

Lo ripeto ancora una volta in altre parole: è in nostro potere accrescere la nostra capacità di perseverare modulando come interpretiamo e reagiamo alla realtà che ci circonda. Non si nasce resilienti, lo si impara con l'educazione e la costanza in un volano positivo di automotivazione. Non ci sono ricette miracolose (e nemmeno coach e motivatori magici). Da un lato: faticoso, dall'altro: ottimo, se la motivazione è in mano nostra, significa che possiamo lavorarci su senza dover aspettare qualcuno che per forza ci dica che siamo bravi.

Tip per genitori:

questo vale per i vostri figli. Aiutateli a trovare la loro motivazione, che risiede nella loro capacità di trovare piacere nel fare le cose, nell'auto efficacia di cui trovano prova ai primi successi, nel pensare che una dose di sacrificio e disagio è necessaria in ogni attività. Limitate motivazioni esterne (ricompense) e lodi ("come sei bravo, veloce" o simili --> e quando non lo sono?), puntate sull'impegno profuso e i miglioramenti personali. Attenzione però: se non vale la carota non vale nemmeno il bastone. Giusto insegnare la perseveranza e la disciplina, ma con l'esempio. L'obbligo infatti o, peggio, le punizioni, sono controproducenti perché (al di la di ogni altra considerazione etica ed educativa) comunque esternalizzano la motivazione. Quando cade l'obbligo, cade anche la motivazione.

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roberta

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