Ripendo l’articolo di febbraio, intitolato Il fascino della motivazione, l’avete letto?

Breve riepilogo: La motivazione è una faccenda complessa e in movimento.

Riepilogo un po’ meno breve: L’umanità, nel tempo, è passata da una motivazione essenzialmente legata alla sopravvivenza (cibarsi, ripararsi, difendersi, riprodursi) a una motivazione più “sociale” legata a una logica esterna di conseguenze positive/negative delle azioni (benessere economico, riconoscimento sociale, essere benvoluti, evitare rigetto sociale o punizioni… ). Questa seconda logica è sopravvissuta molto a lungo, ed è ancora valida così come la prima, ma si somma ora a una sorta di motivazione 3.0 che travalica sopravvivenza e accettazione sociale e si fonda sull’espressione di sé e sulla ricerca di significato. La motivazione esterna “sociale” legata a premi/punizioni, applicata ora, può essere inutile o addirittura dannosa, soprattutto quando si parla di lavori o compiti di ordine più complesso e creativo.

Studi moderni sulla motivazione

Nella seconda metà del ‘900, Douglas McGregor, professore di management del MIT, inizia a introdurre una teoria dirompente, per quelle che erano le opinioni diffuse a quel tempo.

McGregor sostiene che le aziende del tempo operassero in base a presupposti errati sulla natura umana (la chiama la Teoria X). La maggior parte dei leader presupponevano che i dipendenti disprezzassero il loro lavoro e che avrebbero volentieri evitato di farlo, se avessero potuto. Da ciò discendeva la convinzione che fosse necessaria una leadership di comando, controllo e premi/punizioni. McGregor dà una visione diversa (chiamandola Teoria Y): ovvero che l’interesse per il lavoro fosse un fatto naturale, come giocare o riposarsi, che creatività e ingegnosità siano ampiamente diffuse e che, sotto le giuste condizioni, per persone accettano e ricercano la responsabilità.

Credere alla mediocrità delle masse, porta a risultati mediocri, le possibilità diventano ampie quando si crede alla potenzialità degli individui.

La teoria dell’autodeterminazione di Deci e Ryan (clicca sul link se non hai ancora letto il mio articolo in merito) a partire dai primi anni 2000 teorizza che alla base di ogni comportamento umano ci siano 3 ordini di bisogni: di competenza, di autonomia, di relazione. Più questi bisogni sono soddisfatti dall’attività che si sta facendo, più il cursore della motivazione si sposta verso quella che viene definita come la motivazione intrinseca, ovvero la motivazione a fare un qualcosa per il piacere in sé di farlo. Molto simile a quello che Mihaly Csikszentmihalyi definisce come “lo stato di flusso”.

Daniel Pink

Veniamo ora a Daniel Pink, dal cui libro Drive è partita l’idea per questo articolo. A costo di perdersi un po’ di sfumature, Pink divide la popolazione in due tipi “motivazionali”:

il Tipo X: che alimenta la motivazione da desideri estrinseci. Si occupa meno della soddisfazione che porta l’attività in sé, ma cerca invece le ricompense esterne che può procurare. E’ un tipo da Motivazione 2.0

Il Tipo I: è alimentato da una motivazione intrinseca, si occupa meno delle ricompense e più della soddisfazione e del piacere derivante dall’attività. E’ un tipo da Motivazione 3.0, insomma.

Come sempre le etichette servono un po’ a schematizzare, ma ci muoviamo fluidamente, nel tempo e a seconda delle attività, da un tipo all’altro. Di certo abbiamo una predisposizione. Qual è la tua? Riesci a identificare il tuo tipo di motivazione nelle diverse attività della tua vita? Possiamo essere un tipo X in palestra (andiamo solo per buttar giù un po’ di pancetta o conoscere qualcuno) e un tipo I al lavoro (ci piace la libertà che ci dà, il senso di appagamento) ma diventiamo un po’ più X se abbiamo difficoltà economiche o un progetto costoso all’orizzonte e puntiamo al bonus.

Sta di fatto che, nel tempo, le performance migliori si ottengono con quello che Pink chiama tipo I (e Deci e Ryan chiamano Motivazione Intrinseca, Maslow autorealizzazione, Mihaly Csikszentmihalyi Stato di Flusso).

Lo specifico per non correre il rischio di sembrare slegata dalla realtà: al tipo I e in tutte le altre teorie sopra descritte interessa tantissimo essere pagato, soldi e riconoscimenti non sono disdegnati, anzi. Ma, oltre a un determinato e soggettivo limite, contano molto meno della soddisfazione intrinseca derivante dal lavoro.

Come motiviamo 3.0?

Tornano i bisogni di base di Deci e Ryan o, leggermente rivisitati, quelli di Pink.

Autonomia, in primis. Che non significa far fare ciò che si vuole, ovviamente. Significa, una volta definito un obiettivo, per quanto possibile con il contributo della persona, lasciare libero il collaboratore di definire la strada per arrivarci. È necessario passare dall’accettazione dell’obiettivo al coinvolgimento.

Capacità. Far percepire alla persona il suo saper fare. Calibrando gli obiettivi (sfidanti ma possibili), coinvolgendo nella loro costruzione, dando feedback positivi, dando costruttività quando i feedback sono negativi. Chiarendo il contributo di ognuno ai risultati e ai progetti.

Relazione. Costruendo la squadra, prestando attenzione al clima in cui le persone passano il tempo al lavoro.

Pink a Capacità (che chiama Padronanza) e Autonomia affianca il concetto di Scopo. L’idea che esista un obiettivo più grande a cui si sta contribuendo, che lo si possa vedere chiaramente, che lo si condivida e sia parte del proprio sistema valoriale, che dia un senso più alto alle nostre attività.

La leaderhip è fatta tanto di abitudine e di come siamo stati a nostra volta indirizzati. E' difficile cambiare il modo che ci viene automatico, è difficile osare al di fuori dei terreni conosciuti o al di fuori del modus operandi diffusi in azienda. Sta a ognuno di noi avere il coraggio di provare, di fare un piccolo cambiamento e vedere come va, un passo alla volta.

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