15 Ottobre 2023

Hate Speech, il lato oscuro del linguaggio

Oggi mi discosto dai temi soliti di business, management e coaching per abbracciare un tema che mi interessa particolarmente e che trovo sempre attuale, ancora di più nell'epoca della comunicazione istantanea su larga scala: l'uso delle parole. Lo tratto prendendo spunto dal libro "Hate speech, il lato oscuro del linguaggio" di Claudia Bianchi.

Claudia Bianchi è professoressa ordinaria di Filosofia del linguaggio presso l'Università San Raffaele di Milano, si occupa di filosofia sociale del linguaggio, ed esordisce spiegandoci come con hate speech, o linguaggio d'odio, "si indicano generalmente quelle espressioni e quelle frasi che comunicano derisione, disprezzo e ostilità verso gruppi sociali e verso individui in virtù della loro mera appartenenza a un certo gruppo". Gruppo che si distingue per determinate caratteristiche sociali come etnia, razza, nazionalità, religione, genere e così via. Espressioni non dunque indirizzate alla persona o al suo comportamento in quanto individuo, ma alla persona come facente parte di un gruppo. Non derivante da un qualcosa che "ha fatto", ma da un qualcosa che "è".

Ogni capitolo del libro "Hate speech, il lato oscuro del linguaggio" si apre o contiene citazioni letterarie storiche che esemplificano come il tema dell'utilizzo delle parole come esercizio del potere non sia certo recente. Tuttavia, lo sviluppo di internet e dei social media ha reso più immediato, più ampio e in generale più semplice l'amplificarsi del fenomeno, che prende dimensione non più nel qui ed ora di una conversazione, ma permane nel tempo e si allarga abbracciando gruppi anche molto estesi in breve tempo.

La realtà e le parole

Parole, frasi, immagini sono nati e da sempre utilizzati per descrivere oggetti, individui, contesti. In realtà, con il linguaggio in tutte le sue forme non solo descriviamo come uno specchio la realtà, ma mettiamo ordine, etichettiamo e costruiamo mappe per navigare nella realtà sociale che ci circonda.

Con le parole "facciamo cose" (Austin), non solo descriviamo oggettivamente. Con il linguaggio costruiamo gerarchie e asimmetrie che, in larga parte, altro non fanno che riproporre lo status quo, la teoria del gruppo dominante.

Negli ultimi decenni, i filosofi convergono nell'idea che il linguaggio abbia una dimensione performativa, ovvero che, oltre che descrivere la realtà la possa anche trasformare. Qui si innesta un potenziale parallelismo con quanto ogni giorno io tratto: così come le parole possono trasformare la realtà, allo stesso modo le parole che noi usiamo con noi stessi per descrivere la nostra realtà hanno un enorme peso sulle nostre percezioni. Si veda ad esempio su questo blog l'articolo "La scelta delle parole nel dialogo interiore".

Ingiustizia discorsiva e parole d'odio

Claudia Bianchi prosegue declinando il tema in ingiustizia discorsiva, ovvero quanto l'appartenenza ad un gruppo possa distorcere, indebolire o perfino annullare le parole di una persona. Ancora più diretta: il fatto che io sia donna/uomo, ricco/povero, bianco/nero fa sì che le stesse identiche parole siano interpretate e percepite dagli altri in modo anche sensibilmente diverso, che abbiano più o meno peso, che siano vissute come minacciose o meno e così via. Chiaramente, anche in questo caso, il potere relativo del gruppo sociale di appartenenza si riverbera sul peso delle parole pronunciate, avvantaggiando il gruppo dominante.

Altra declinazione del tema sono le parole d'odio, gli epiteti denigratori che colpiscono insieme individui e gruppi sociali. Con una sola parola, offendo te e l'intero gruppo a cui, con questo epiteto, ti accomuno. Così facendo, etichetto te in base a una tua appartenenza a un gruppo sociale, svilendoti come persona nella tua interezza e definisco il tuo gruppo come degno di disprezzo.

La dimensione normativa del linguaggio, le etichette che vengono usate, giustificano comportamenti, attese, prescrizioni verso quel gruppo sociale e verso di te, appartenente a tale gruppo. Il fatto di definirti, ad esempio, donna (o uomo, nero, bianco, disabile, omosessuale e così via) fa sì che io mi aspetti determinati comportamenti da te e da tutto il gruppo accomunato da tale etichetta, legittimando nel contempo atteggiamenti e comportamenti discriminatori o perfino violenti, ove le prescrizioni vengano disattese. Ti invito ad approfondire distorsioni stereotipi e pregiudizi su questo articolo del blog.

A volte l'utilizzo del linguaggio è alternativo alla violenza fisica, altre volte è anticipatorio. In ogni caso è classificabile come violenza alla persona perché ne mina l'integrità psicologica e l'identità sociale, la libertà e il potere di autodeterminazione.

Cosa possiamo fare?

Chi assiste all'utilizzo di ingiustizia discorsiva o parole d'odio può influenzare il potere performativo delle parole, "la loro capacità di fare cose con le parole". Bianchi sottolinea come la nostra responsabilità non si esaurisca con il nostro utilizzo delle parole, ma che siamo responsabili anche in certa misura delle parole degli altri: "Possiamo indebolirle fino ad annullarle, o viceversa legittimarle e amplificarle (...). Soprattutto, possiamo scegliere di non restare in silenzio, di non rimanere indifferenti, di non diventare complici- più o meno consapevoli".

Non solo: il tuo impatto nell'indebolire o annullare le parole d'odio, le etichette, le discriminazioni è tanto maggiore tanto ti avvicini al prototipo del gruppo dominante. Se sei uomo, bianco, benestante e istruito (ovvero circa l'80% dei frequentatori di questo blog) hai il potere e la conseguente responsabilità di agire per riequilibrare le asimmetrie.

La scelta sta a te.

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